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Le donne italiane vogliono vedere le influencer senza filtri

Selfie ritoccati, utilizzo abbondante di filtri che migliorano l’aspetto, per apparire più belle e più giovani su Instagram e i social in generale. Una tendenza che “colpisce” soprattutto le influencer, la cui necessità di essere considerate un modello da seguire e imitare, è un imperativo.

Ma non tutti sono d’accordo sull’uso di filtri e ritocchi virtuali. Nelle scorse settimane è stato realizzato uno studio sull’utilizzo dei filtri nei social network, e secondo i risultati della ricerca oltre l’80% delle intervistate ha dichiarato che vorrebbe vedere le persone come realmente sono, e non modificate dai filtri.

L’autorità di controllo della pubblicità inglese dice no

Si tratta di un sondaggio realizzato da Twelab, il brand specializzato in cosmetica per under 30, al quale hanno partecipato oltre 800 ragazze e donne delle principali città italiane, con età compresa tra i 18 e i 30 anni. Lo studio è nato in seguito alla decisione dell’ASA, l’autorità di controllo della pubblicità inglese, di vietare l’uso dei filtri nei post sponsorizzati degli influencer per prodotti di make up e skincare.

Su Instagram le immagini sono troppo modificate e non rappresentano la realtà

In ogni caso, dal sondaggio condotto in Italia è emerso che l’84,3% delle intervistate ritiene che le immagini postate su Instagram siano troppo modificate e non rappresentino la realtà, mentre il 15,7% pensa, al contrario, che la questione “non crei alcun disturbo”.

In Italia non esistono normative a riguardo, ed è per questo motivo che Twelab ha deciso di promuovere la causa inserendo il payoff forget filters, ovvero “dimentica i filtri”, in tutta la comunicazione dei suoi prodotti, vietando quindi alle influencer con cui collabora di usare filtri che alterino i risultati dei prodotti delle linee per la skincare. Nel sito dell’azienda si legge infatti: “La nostra visione è quella di un mondo dove ogni donna possa sentirsi bella per com’è, senza filtri, senza ‘Photoshop’. Il nostro pay off ‘forget filters’ è la nostra visione”.

No a pubblicità che non mostrano l’aspetto reale della pelle

Ma oltre al Regno Unito, anche altri Paesi si stanno muovendo o si sono già mossi nella stessa direzione. A partire dalla Francia, che già nel 2017 aveva promulgato una legge con la quale si obbligavano a indicare con il termine “fotografia ritoccata” tutte le immagini commerciali nelle quali il soggetto è stato ritoccato. Le autorità ora si stanno focalizzando in particolare su tutti i filtri che possono cambiare la grana o il colorito della pelle, e quindi alterare l’effetto dei prodotti pubblicizzati. Diremo veramente addio alle influencer senza filtro? Chissà. Per ora la questione è stata sollevata.

 

Primo trimestre 2021, aumenta l’importo medio dei mutui richiesti

Tra gennaio e marzo 2021 l’importo medio richiesto agli istituti di credito per i mutui è cresciuto del 2,5%, arrivando a 137.479 euro. Nonostante il lieve aumento dei tassi fissi, e una situazione economica ancora incerta, gli italiani sembrano non voler rinunciare al sogno di comprare casa.

“Nel corso del primo trimestre le banche non solo hanno continuato a offrire condizioni favorevoli, ma hanno anche mantenuto una certa elasticità nei criteri di valutazione del merito creditizio dei richiedenti – spiega Ivano Cresto, Responsabile mutui di Facile.it – tutto questo ha contribuito a sostenere la domanda in un periodo comunque ancora molto influenzato dagli effetti della pandemia”.

Secondo l’osservatorio realizzato da Facile.it e Mutui.it aumenta anche la durata del piano di ammortamento medio, che probabilmente per via dell’incremento degli importi richiesti, passa da poco meno di 22 anni a 23 anni.

Aumenta il tasso fisso

Sebbene le condizioni applicate dalle banche siano rimaste favorevoli, qualcosa sul fronte degli indici si è mosso, e questo ha prodotto un lieve aumento dei tassi fissi. Il rincaro è dovuto alle aspettative di inflazione: le previsioni di crescita dell’economia americana e la possibile ripartenza dell’economia europea e dei prezzi al consumo, hanno determinato un aumento dell’IRS (l’indice che guida il tasso dei mutui fissi), con conseguente rincaro dei tassi offerti alla clientela. Secondo le simulazioni di Facile.it, per un finanziamento da 126.000 euro da restituire in 25 anni, ad aprile 2021 il Taeg medio rilevato online è salito all’1,37%.

Ancora basso il tasso variabile, ma più di 9 mutuatari su 10 scelgono il fisso

Ancora molto basso, invece, il tasso variabile. Ad aprile 2021, secondo la simulazione di Facile.it, il Taeg medio è pari all’1,03%. Torna quindi ad allargarsi la forbice tra tassi fissi e tassi variabili. Secondo la simulazione di Facile.it, la differenza media è di circa 18 euro sulla singola rata iniziale, ma sebbene la distanza sia cresciuta, a oggi non si è registrata un’inversione di tendenza, e più di 9 aspiranti mutuatari su 10 optano ancora per il fisso. L’aumento dei tassi di interesse ha avuto però un primo effetto: il calo delle richieste di surroga. Secondo Facile.it nel primo trimestre 2021 il peso percentuale di questo tipo di finanziamento è diminuito, passando dal 37% dello scorso anno al 22%.

Addio alla surroga? Niente affatto

Va considerato, però, che a marzo 2020 il settore immobiliare e quello dei mutui hanno vissuto un vero e proprio stop, soprattutto per quanto riguarda la richiesta di nuovi finanziamenti. Inoltre, un calo del peso delle surroghe è fisiologico, se si considera che i tassi di interesse sono bassi da tempo, e che negli scorsi anni, tanti italiani hanno già approfittato di questa opportunità. Addio alla surroga dunque? Niente affatto, almeno per ora. Nonostante gli aumenti, i tassi odierni sono ancora nettamente inferiori rispetto agli indici rilevati pre-pandemia.

 

Per l’85% dei manager cambiare governance fa bene all’economia locale

I cambi di governance, come acquisti, cessioni, fusioni, fanno bene all’economia locale. Lo pensa l’85% degli imprenditori e manager che hanno partecipato alla ricerca Governance Change di Fondirigenti, realizzata sul territorio di Reggio Emilia dal Cis, la Scuola per la gestione d’impresa che fa capo alla Confindustria di Reggio Emilia. L’indagine è stata condotta su un gruppo di imprese, quasi tutte oggetto di acquisizione, dove però è stato mantenuto il livello occupazionale preesistente, senza operare tagli.

Un aspetto decisivo che determina la sopravvivenza di molte Pmi

Le operazioni di fusioni, cessioni, acquisti, “costituiscono un’importante fonte di dinamismo per il tessuto industriale locale, uno stimolo alla trasformazione di modelli organizzativi tradizionali e a volte obsoleti, una risorsa per affrontare i mercati globali con la forza necessaria”, si legge nella ricerca, e comportano “un aumento delle responsabilità del manager”.

“Il cambio di governance – sottolinea Costanza Patti, direttore generale di Fondirigenti – rappresenta per le piccole e medie aziende italiane un aspetto così decisivo da determinarne in molti casi la sopravvivenza, ed è di assoluta importanza che venga attuato con strategie oculate, come suggerisce questa ricerca”.

I gruppi cinesi rispettano di più la cultura aziendale locale

Fra gli imprenditori che hanno abbracciato il progetto, c’è però anche chi ha comunicato esperienze di segno negativo, caratterizzate da “prepotenza culturale” dei nuovi partner o nuovi acquirenti, con uno scarso rispetto della specificità e dei punti di forza locali. Sotto questo aspetto, per quanto riguarda le cessioni a gruppi stranieri, se il “modello di incorporazione” anglosassone, ancor più nella versione Usa, tende a imporre le proprie soluzioni a livello globale, è sorprendente che a usare la “mano leggera” rispetto alla cultura aziendale locale siano i gruppi cinesi, con una forma di integrazione più strategica che strettamente operativa, riporta Adnkronos/Labitalia.

Più cessioni all’estero che acquisizioni da parte di imprese regionali

Il progetto si è realizzato in una regione, l’Emilia Romagna, particolarmente caratterizzata dai cambi di governance. Solo nel 2019 sono avvenute circa 200 tra fusioni e acquisizioni, un quinto di tutte le operazioni realizzate in Italia. Si rilevano poi più cessioni all’estero che acquisizioni da parte di imprese regionali, e gli imprenditori stranieri più attivi sono gli americani (60 operazioni) i francesi (42) e le aziende del Regno Unito (33). In Italia, invece, secondo il dati forniti dalla rete di servizi professionali Kpmg, tra il 2010 e il 2019 ci sono state 40 miliardi di acquisizioni estere da parte di aziende italiane, e soltanto 16,6 miliardi di acquisizioni italiane di aziende straniere. Anche se nel 2020, nonostante il Covid, il trend sembra essersi invertito.

In Italia cresce la collaborazione tra startup e imprese mature

Il Corporate Venture Capital, con 1,77 miliardi di euro, è la principale fonte di investimento nell’ecosistema delle startup e Pmi innovative. Negli ultimi due anni infatti il numero delle quote dei soci Corporate che hanno investito in startup innovative è aumentato dell’83,7%, passando da 7.653 a 14.055 unità, di cui circa 6.000 partecipazioni dirette (+62,3%). A ciò si aggiungono 5.900 quote in Pmi innovative, di cui 1.941 partecipazioni dirette. L’Italia conferma quindi il trend di crescita degli investimenti in startup innovative e la dinamica positiva dell’open innovation.

È quanto emerge dall’Osservatorio promosso da Assolombarda, InnovUp, Smau e la Camera di Commercio di Milano, Monza Brianza e Lodi, con la partnership di InfoCamere e degli Osservatori del Politecnico di Milano, e il supporto di Confindustria e Piccola Industria Confindustria.

Nel 2019, 2,5 miliardi di euro il fatturato generato da startup e Pmi innovative

Con 1,77 miliardi gli operatori Corporate, ovvero le imprese mature del sistema industriale italiano e internazionale, e quelli Family&Friends (1,28 miliardi), persone fisiche e ditte individuali, contribuiscono a oltre il doppio degli investimenti provenienti dagli investitori specializzati (1,05 miliardi). Quanto ai dati di bilancio, nel 2019 il fatturato generato da startup e Pmi innovative era pari a 2,5 miliardi di euro. Il 57% di questi ricavi, pari a 1,46 miliardi, è prodotto da aziende nel portafoglio di corporate venture capital, riporta Ansa.

La maggior parte dei soci Corporate ha sede nel Nord Italia

L’Osservatorio rivela che gli investitori specializzati in innovazione sono nel capitale di 610 startup e Pmi innovative iscritte alla sezione speciale del Registro, mentre i soli Corporate Venture Capital sono nel capitale di 3.923 startup e Pmi innovative (+23% rispetto all’anno precedente per quanto riguarda le sole startup), e 9.168 startup e Pmi innovative hanno come soci solo Family&Friends.  La maggior parte dei soci Corporate di startup e Pmi innovative, rispettivamente il 68,7% e il 58,4%, ha sede al Nord del Paese. Di contro, si rileva una distribuzione più omogenea di startup e Pmi innovative su tutto il territorio italiano, a testimonianza di un flusso di investimenti da parte di corporate del Nord che va a beneficio di startup e Pmi innovative che operano nel Centro Sud, riferisce CorriereComunicazioni.

“Le imprese credono sempre più nel valore aggiunto delle realtà innovative”

Anche in Italia le imprese di ogni dimensione credono sempre più nel valore aggiunto derivante dalla collaborazione quotidiana con le imprese innovative. “Soprattutto negli ultimi mesi abbiamo potuto constatare come le imprese innovative siano per propria natura quelle in grado di fornire in breve tempo soluzioni efficaci per far fronte ai repentini cambiamenti di scenario – commenta Angelo Coletta, Presidente di InnovUp -. Sta ora alla politica confermare la crescente attenzione al settore, rendendo, con gli strumenti legislativi adeguati, ancora più strutturale lo scambio virtuoso tra le grandi e le piccole realtà del tessuto imprenditoriale italiano, vero motore della fase di ripresa del nostro Paese”.

Aumenta l’indice dei prezzi delle abitazioni acquistate

Secondo le stime preliminari dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle Entrate nel primo trimestre 2020 l’indice dei prezzi delle abitazioni (IPAB) acquistate dalle famiglie, per fini abitativi o per investimento, è aumentato dello 0,9% rispetto al trimestre precedente, e dell’1,7% nei confronti dello stesso periodo del 2019. Era infatti al +0,2% nel quarto trimestre 2019. L’aumento tendenziale dell’IPAB, il più ampio dal secondo trimestre 2011, è da attribuire sia ai prezzi delle abitazioni nuove, che crescono dello 0,9% (era +1,4% nel trimestre precedente) sia soprattutto ai prezzi delle abitazioni esistenti, che aumentano su base tendenziale dell’1,9%, mostrando una netta accelerazione rispetto al quarto trimestre del 2019, quando la variazione era stata nulla.

Brusco calo dei volumi di compravendita per le misure di contenimento del coronavirus

Questi andamenti si manifestano in un contesto di brusco calo dei volumi di compravendita, imputabile alle misure adottate per il contenimento della pandemia da Covid-19, che hanno drasticamente limitato la possibilità di stipulare i rogiti notarili. Questo ha determinato una forte flessione delle transazioni a partire dal mese di marzo. Per il primo trimestre del 2020 la variazione tendenziale registrata dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle Entrate per il settore residenziale si attestava infatti a -15,5%.

Crescono i prezzi delle abitazioni esistenti, diminuiscono quelli delle abitazioni nuove

La divaricazione tra gli andamenti dei prezzi in aumento e quelli dei volumi in forte calo testimonia come le misure restrittive introdotte, sebbene già in vigore a marzo, non abbiano avuto alcun impatto apprezzabile sulle quotazioni degli immobili residenziali registrate nel primo trimestre, che si riferiscono, anche per il mese finale, al perfezionamento di contratti di compravendita a condizioni stabilite prima dell’emergenza sanitaria. Su base congiunturale l’aumento dell’IPAB (+0,9%) è dovuto unicamente ai prezzi delle abitazioni esistenti, che crescono dell’1,2%, mentre quelli delle abitazioni nuove diminuiscono dell’1,2%.

Il tasso di variazione acquisito dell’IPAB per il 2020 è +0,9%

In ogni caso, il tasso di variazione acquisito dell’IPAB per il 2020 è positivo, ed è pari a +0,9%. Con i dati del primo trimestre 2020 sono stati aggiornati, come di consueto, i pesi utilizzati per la sintesi degli indici delle abitazioni nuove e di quelle esistenti. In particolare, il peso delle abitazioni nuove è pari a 16,7% contro l’83,3% delle abitazioni esistenti. Il peso delle abitazioni nuove risulta inoltre sostanzialmente stabile rispetto al 2019, ma fortemente in calo rispetto al 2010, quando rappresentava quasi il 35%.

 

 

Imprenditori fuori sede, 1 su 4 sceglie Milano per fare business

Milano è prima in Italia per attrattività imprenditoriale extra regionale, e un imprenditore su quattro si sposta per il business. Il 46% di chi fa impresa a Milano arriva infatti da fuori Lombardia (256 mila su 554 mila) contro una media regionale del 32,5% (443 mila su 1,4 milioni), e italiana del 25%. A livello nazionale su 7,5 milioni di imprenditori sono 1,9 milioni quelli che lavorano fuori dalla regione o Stato di origine. Si tratta di un’elaborazione della Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi su dati del registro delle imprese al secondo trimestre 2019. In particolare, su coloro che ricoprono cariche nelle imprese, come titolari, soci o amministratori.

Anche Aosta e Novara sul podio per numero di imprenditori extra regionali

Dopo Milano, a livello nazionale, con circa il 40% degli imprenditori provenienti da un’altra regione si piazza Aosta (7 mila cariche su 18 mila), poi Novara (16 mila su 40 mila) e Trieste (9 mila su 23 mila), che quest’anno superano Imperia (12 mila su 30 mila). Sesta si conferma Roma, dove il 38% degli imprenditori viene da fuori Lazio (194 mila su 507 mila). Supera il 35% la presenza di imprenditori nati fuori regione anche a Prato, Savona, La Spezia, Bologna e Genova.

Quali i fattori che motivano la scelta di spostarsi

Per quanto riguarda la provenienza, in Italia il 38% di chi arriva da fuori regione è straniero, mentre il 62% arriva da altre regioni italiane. E se in Lombardia il peso degli italiani è del 65% a Milano è del 68%, mentre a Prato è straniero il 62%, riporta Italpress. Ma quali sono in concreto gli elementi che spingono a spostarsi? A livello nazionale i fattori principali che motivano la scelta di spostarsi sono la vicinanza alla filiera del settore in cui opera l’imprenditore, la dotazione di servizi e infrastrutture, la disponibilità di personale adeguato, la presenza dei distributori, la vicinanza diretta con la clientela.

“Alla ricerca di una dimensione territoriale adatta per il successo dell’attività”

“Gli imprenditori mostrano una particolare flessibilità e disponibilità ad adattare le proprie scelte. Questo vale anche per il contesto economico in cui vanno a operare, alla ricerca di una dimensione territoriale adatta per il successo dell’attività – dichiara Marco Dettori, membro di giunta della Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi -. Nel caso di Milano e dei maggiori centri economici, il territorio attrae in modo più ampio e diffuso gli imprenditori che arrivano da fuori regione. Convergono così imprenditori italiani, stranieri e le multinazionali, grazie a una dotazione infrastrutturale che si adatta a diversi settori ed esigenze d’impresa”.

Automazione e digitalizzazione, le competenze più richieste da Impresa 4.0

In un mondo in cui digitalizzazione e automazione entrano di peso nella maggior parte delle mansioni, dotarsi delle nuove competenze diventa indispensabile. Nel nostro Paese su 10 tipologie di lavoro 6 vedranno gran parte dei propri compiti svolti da macchine robotizzate Si fissa invece nell’immediato futuro l’indagine del World Economic Forum, secondo il quale nei prossimi 7 anni il mix tra intelligenza artificiale, robot e automazione cancellerà 75 milioni di posti di lavoro, creandone però 133 milioni di nuovi. Si parla quindi di un saldo positivo di 58 milioni di nuove posizioni di lavoro. Ma affinché questo sia possibile è necessario poter contare sulle necessarie competenze richieste dal mondo dell’Impresa 4.0.

Skills digitali, ma non solo

“Le diverse indagini effettuate negli ultimi anni parlano piuttosto chiaro: tutti quanti sono concordi nell’affermare che all’incirca un terzo dei posti di lavoro che si creeranno nei prossimi cinque e dieci anni avrà come requisiti fondamentali delle skills, digitali ma non solo, che oggi risultano raramente disponibili sul mercato”, commenta Carola Adami, CEO di Adami & Associati, società di ricerca e selezione di personale qualificato.

L’impresa 4.0 ha bisogno di professionisti capaci di lavorare in gruppo e di integrarsi all’interno del sistema aziendale, ma anche di talenti dotati di pensiero creativo, capacità di problem solving e adattamento.

Mancano le competenze interne per le complesse strategie di business aziendali

Poiché il mondo del lavoro sarà caratterizzato da un continuo e veloce cambiamento, le aziende e gli stessi professionisti dovranno quindi perseguire nuove competenze non ancora formate. Molte aziende si trovano attualmente a lanciare complesse strategie di business sul lungo termine senza poter contare sulle necessarie competenze interne. E se l’automazione cancellerà tantissimi lavori, creandone molti di più, queste nuove posizioni potranno essere assegnate solamente a professionisti in grado di capire e gestire al meglio le nuove tecnologie.

Anche il mondo della formazione dovrà adattarsi

“Attualmente in Italia – spiega Carola Adami – meno di un terzo dei lavoratori è in possesso di competenze digitali di alto livello”.Questo significa che le imprese si troveranno ben presto a sfidarsi fra loro per assicurarsi i necessari talenti digitali, cosa che peraltro sta iniziando ad accadere già oggi, con le aziende alla continua ricerca di ruoli digital, a conferma del significativo mismatch che caratterizza l’attuale mercato del lavoro.

Ma significa anche che anche il mondo della formazione dovrà adattarsi, sia prima dell’entrata nel mondo del lavoro sia “on the job”.

Occupazione record, ma non per i giovani

Per la prima volta dal 2012, la disoccupazione è sotto la soglia del 10%, attestandosi al 9,7%. Secondo i dati Istat  relativi al mercato del lavoro italiano ad agosto 2018 il tasso di occupazione è arrivato al 59%, con più 69.000 occupati rispetto a luglio. Un record mai registrato nel nostro Paese. Almeno dal 1977, anno in cui si è dato il via alle rilevazioni. Ma non è tutto oro quello che luccica. Gli esperti puntano il dito in direzione della qualità del lavoro, e soprattutto verso la natura dei contratti che hanno portato così in alto il tasso di occupazione. In particolare i contratti a termine, mai stati così tanti dal 1992. Ma il vero problema è ancora la disoccupazione giovanile.

I disoccupati tra i 15 e i 24 anni sono il 31%

Se infatti nella fascia di età tra i 50 e i 64 anni si è arrivati a oltrepassare il 60% di occupazione, per quanto riguarda gli under 24 la situazione non migliora, anzi, peggiora. Rispetto a luglio la disoccupazione giovanile è aumentata dello 0,2%, portando così al 31% i disoccupati tra i 15 e i 24 anni.

“Il forte scollamento tra mondo della scuola e mondo del lavoro continua a pesare fortemente sui dati relativi all’occupazione giovanile”, spiega Carola Adami, CEO e founder dell’agenzia di ricerca e selezione del personale Adami & Associati. Del resto il gap tra domanda e offerta di lavoro è destinato a crescere ulteriormente, nonostante la ripresa che gli stessi dati Istat dimostrano in modo piuttosto palese.

“L’Italia non forma un numero sufficiente di professionisti nel campo Itc”

“Le aziende italiane, in piena digital trasformation, sono alla ricerca di figure Ict formate ed esperte, in grado dunque di accompagnare questa evoluzione interna – sottolinea Adami – purtroppo, però, alcune di queste ricerche sono destinate a restare insoddisfatte, in quanto l’Italia, a oggi, non forma un numero sufficiente di professionisti nel campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione”. Del resto sono gli stessi numeri a dimostrare il fatto che i laureati in ingegneria, seppure in aumento, sono ancora troppo pochi, anche per via dell’alto tasso di abbandono degli studi (che sfiora il 60%). Ed è per questo motivo che le aziende italiane faticano non poco a individuare figure come i Data Analyst, i Web Developer, e i System Engineer.

Il paradosso del mercato del lavoro

Si ripropone dunque il paradosso del mercato del lavoro italiano: laddove molti giovani continuano a ricercare un’occupazione le aziende si sfidano l’un l’altra per assicurarsi i pochi talenti formati dalle scuole e dalle università italiane.

Ai primi non resta che lavorare sulle proprie competenze, fissando obiettivi realizzabili, mentre le seconde devono ottimizzare i processi di ricerca e di selezione, per non lasciarsi sfuggire i, pochi, professionisti in grado di supportare l’evoluzione digitale.

Tasse: quasi 200 miliardi in più in 20 anni. Ma l’evasione è al 16,3%,

Sono quasi 200 miliardi le tasse che i 41 milioni di contribuenti italiani hanno pagato in più in vent’anni. Dal 1997 al 2017 il peso delle imposte è aumentato di 198 miliardi di euro, passando da 304 a 502 miliardi.

Lo rivela l’ultima analisi dell’Ufficio Studi della Cgia di Mestre, che evidenzia come nel periodo considerato le entrate tributarie siano cresciute di oltre 65 punti, un livello nettamente superiore all’andamento dell’inflazione (+43 punti percentuali).

La ricerca ha valutato però anche l’ammontare delle imposte sottratte al fisco. A livello nazionale si tratta di una cifra che si aggira intorno ai 114 miliardi di euro, con un tasso di evasione pari al 16,3%, e punte del 24,7% in Calabria, del 23,4% in Campania e del 22,3% in Sicilia.

Gli italiani “lavorano” per il fisco 4 giorni in più rispetto alla media europea

Nel 2016, l’ultimo anno in cui è stato possibile effettuare una comparazione fra i paesi Ue, i contribuenti italiani hanno lavorato per il fisco per 154 giorni lavorativi, 4 giorni in più rispetto alla media registrata nei Paesi dell’area euro, e 9 con la media dei 28 Paesi dell’Unione.

Solo la Francia presenta un numero di giorni di lavoro superiore a quello italiano (+21). Tutti gli altri hanno potuto festeggiare la liberazione fiscale con un netto anticipo. In Germania, ad esempio, 7 giorni prima di noi, in Olanda 12, nel Regno Unito 27 e in Spagna 28. Il paese più virtuoso è l’Irlanda: con una pressione fiscale del 23,6% permette ai propri contribuenti di assolvere gli obblighi fiscali in soli 86 giorni lavorativi.

L’evasione fiscale assume dimensioni economiche preoccupanti

In linea generale in nessun altro Paese d’Europa viene richiesto uno sforzo fiscale come in Italia. “La nostra giustizia civile è lentissima, la burocrazia ha raggiunto livelli ormai insopportabili, la Pubblica amministrazione rimane la peggiore pagatrice d’Europa – segnala il segretario della CGIA Renato Mason – e il sistema logistico-infrastrutturale registra ritardi spaventosi: nonostante queste inefficienze, la richiesta del nostro fisco si colloca su livelli elevatissimi e, per tali ragioni, appare del tutto ingiustificata”.

E con un carico impositivo smisurato l’evasione fiscale assume dimensioni economiche preoccupanti.

“Paghiamo anche le tasse sulle tasse”

“L’armamentario fiscale italiano è composto da oltre 100 voci – si legge nella ricerca – una sequela di addizionali e bolli, dai canoni ai contributi, dai diritti alle imposte per passare alle ritenute”. Senza contare che paghiamo anche le tasse sulle tasse. Un esempio? Quando facciamo il pieno alla nostra auto la base imponibile su cui si applica l’Iva è composta anche dalle accise sui carburanti.

Oltre all’eccessivo carico fiscale il problema è anche il peso della burocrazia fiscale in capo agli imprenditori. Al netto delle tariffe applicate dai commercialisti per la tenuta della contabilità aziendale, fra obblighi, dichiarativi, certificazione dei corrispettivi, tenuta dei registri, i costi ammontano a circa 3 miliardi di euro all’anno.

Italia, il Fisco pesa ancora troppo: è al 48,3%

La pressione fiscale in Italia non molla la presa. Quella reale, infatti si attesterebbe al  48,3%, ovvero 6,1 punti percentuali in più rispetto a quella ufficiale. L’unica buona notizia è che, rispetto al 2014,  si sia leggermente allentata. Ma il tetto resta troppo alto. A rilevarlo è la stima è dell’Ufficio studi della Cgia, che ha condotto un monitoraggio sul trend della pressione fiscale. In una nota, la Cgia scrive che se la pressione risulta “in calo rispetto agli anni precedenti”, il peso complessivo del fisco “rimane comunque ad un livello insopportabile”. E ancora: “Se alle troppe tasse aggiungiamo il peso oppressivo della burocrazia, l’inefficienza di una parte della nostra pubblica amministrazione e il gap infrastrutturale che ci separa dai nostri principali competitori economici, non c’è da stupirsi che serpeggi un certo malessere soprattutto tra gli imprenditori del Nordest. Tra le altre cose, a causa di tutte queste criticità, continuiamo a rimanere il fanalino di coda in Ue per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri” spiega il coordinatore Cgia Paolo Zabeo.

Il 2019 potrebbe essere “tosto”

Non sono confortanti nemmeno le previsioni per il 2019. Stando al rapporto, la pressione fiscale potrebbe crescere “sia perché la crescita del Pil è data in frenata da tutti gli organismi internazionali, sia a seguito di un possibile aumento del prelievo fiscale”. “Nel caso, infatti, non si dovessero trovare 12,4 miliardi di euro, dal 1 gennaio 2019 l’aliquota Iva, attualmente al 10%, salirebbe all’11,5%; altresì, quella attuale del 22% schizzerebbe addirittura al 24,2%” spiega la Cgia, per la quale “è molto probabile” che per il 2019 si dovrà nuovamente mettere mano ai conti pubblici “per quasi 10 miliardi”, oltre a dover reperire circa 2 miliardi di euro per il rinnovo del contratto di lavoro degli statali, ulteriori 500 milioni di spese ”indifferibili” e altri 140 milioni per evitare l’aumento delle accise sui carburanti a partire dal 1 gennaio 2019. La nota riporta ancora che “Viste le difficoltà incontrate con il decreto dignità non è da escludere che almeno una parte di questi 25 miliardi di euro possa essere finanziata attraverso un incremento del prelievo fiscale. Un’ipotesi che l’esecutivo ha scartato da tempo, ma che potrebbe essere costretto a ricorrere in mancanza di alternative”.

Come è stato effettuato il calcolo

Il rapporto della Cgia spiega anche come è stato calcolato il dato sulla pressione fiscale stimata:  si basa sul calcolo di un Pil nazionale che include anche l’economia non osservata, riconducibile alle attività irregolari che, non essendo conosciute al fisco, almeno in linea teorica non versano né tasse, né imposte e né contributi. E secondo l’Istat, prosegue la nota, l’economia non osservata nel 2015 ammontava a 207,5 miliardi di euro (pari al 12,6 per cento del Pil). E lo stesso parametro è stato adottato dall’Ufficio studi della Cgia per gli anni 2016, 2017 e 2018.  “Siccome la pressione fiscale ufficiale è data dal rapporto tra le entrate fiscali/contributive e il Pil prodotto in un anno, nel 2018 questa è destinata a scendere al 42,2% al lordo del bonus Renzi” precisa la nota pubblicata da AdnKronos. “Tuttavia se ‘togliamo’ dalla ricchezza prodotta la quota addebitabile al sommerso economico e alle attività illegali che, almeno in linea teorica, non producono nessun gettito per l’erario, il Pil diminuisce (quindi si riduce il denominatore) facendo aumentare il risultato che emerge dal rapporto” conclude la Cgia. Quindi “la pressione fiscale ‘reale’ che grava su lavoratori dipendenti, sugli autonomi, sui pensionati e sulle imprese che pagano correttamente le tasse è superiore a quella ufficiale di 6,1 punti: per l’anno in corso è destinata ad attestarsi al 48,3%”.